domenica 26 ottobre 2014

Impressione e Fiori a Giverny. Parte III


Parte III: Monet e la natura


“A forza di trasformazioni, inseguo la natura senza poterla agguantare…”


Lungo tutta la sua lunga e tribolata esistenza, Claude Monet sembrò inseguire una sua segreta visione: un paesaggio di luce e di colori riflessi, ricercato con insistenza fin dalla giovinezza, quando forse l’immagine sognata era ancora confusa sella sua mente e gli appariva solo a sprazzi, lontana ed evanescente. La via giusta per raggiungerla gli fu però presto misteriosamente rivelata e Monet non volle mai separarsi dall’acqua e dai fiori.

“Con l’andar del tempo mi si aprivano gli occhi, capii veramente la natura ed imparai anche ad amarla…”.

Nato a Parigi il 14 novembre 1840, a cinque anni Claude aveva già sotto lo sguardo la vasta e cangiante distesa d’acqua della Manica, vista dalla nuova casa di Sainte-Adresse, un sottoborgo della cittadina di Le Havre in cui la famiglia si era trasferita per ragioni economiche. Dinanzi al mare, giocando i suoi giorni più belli lungo la riva sabbiosa, egli scoprì che amava disegnare e che amava i colori. Dinanzi al mare disegnò i suoi primi schizzi, dalla caricatura di una “Bagnante con cappello” alle immagini di barche adagiate sulla spiaggia, che lo resero noto a Le Havre a soli quindici anni.
Esponendo i suoi disegni presso il negozio del corniciaio della città, Claude conobbe poi Eugène Boudin e le sue “Marine” dipinte dal vero sulle spiagge del Mare del Nord; proprio Boudin fu il suo primo vero maestro, comunicandogli con entusiasmo e passione il suo “segreto”:

“Tutto ciò che è dipinto direttamente e sul posto, ha sempre una forza, una vivacità di tocco che non si ritrova più nello studio”.

Insieme dipingevano all’aria aperta e a poco a poco per Claude non vi fu più altro soggetto che il paesaggio dipinto dal vero: anche quando, nel 1859, si recò a Parigi per studiare pittura, egli fu più che altro attratto dalle opere dei pittori della Scuola di Barbizon, in particolare da quelle di Daubigny. L’attrazione per la natura gli rese meno pesante persino il servizio militare in Algeria, tra il 1860 e il 1862: nei suoi occhi rimasero felicemente impressi i colori degli assolati paesaggi che poté ammirare in quell’occasione.

Tornato in Francia, Monet diede inizio ad una sorta di pellegrinaggio alla ricerca della natura: tra il 1863 e il 1864 si trasferì con alcuni suoi compagni (Bazille, Sisley e Renoir) nel villaggio di Chailly, ai margini della foresta di Fontainebleau, per dipingere liberamente all’aperto. Fu un periodo intenso e fondamentale per lo sviluppo della poetica e dello stile di Monet; il contatto con i pittori di Barbizon fissò in lui definitivamente la passione per la natura ed egli si persuase del fatto che la natura stessa sarebbe sempre stata il suo unico vero atelier.

Dopo un soggiorno a Honfleur, sulla Senna, nella primavera del 1865 Monet tornò a Chailly per dipingere il “Déjeuner sur l’herbe”; il lavoro en plein air lo coinvolse fortemente anche dal punto di vista emotivo e da allora gli spostamenti furono sempre più frequenti. Dal 1865 fino agli ultimi anni trascorsi a Giverny, Monet inseguì con crescente trepidazione la “sua” natura, nel frenetico tentativo di “agguantarla”. Estate, inverno, autunno o primavera… con la pioggia o con il sole, egli sostò instancabile davanti allo scintillio delle familiari acque della Senna e nelle nebbie umide del Tamigi; tra i mulini e i tulipani riflessi nei canali d’acqua tranquilla di Zaandam (Olanda) e la neve in disgelo sul torrentello della Creuse; tra gli alti fiordi norvegesi, sulle rive solitarie del Mare del Nord e sul galleggiante “impressionismo in pietra” di Venezia, certo che la sua arte mai avrebbe avuto vita se rinchiusa tra le pareti di un atelier di Parigi.


Claude Monet, Vela sulla Senna, 1873.

Claude Monet, Il parlamento di Londra, 1894.


“Questi paesaggi d’acqua e di riflessi sono divenuti un’ossessione. È al di là delle mie forze di persona anziana, e voglio tuttavia arrivare a rendere ciò che sento vivamente. Ne sono distrutto (…) ricomincio (…) e spero che da tanto sforzo esca qualcosa”. 
(C. Monet, lettera allo scrittore Gustave Geofrroy, 11 agosto 1908).

Per tutta la vita Monet non poté fare a meno della natura: non poté fare a meno di guardarla, di toccarla, di respirarla… e di dipingerla. La sua divenne un’esigenza vitale, il suo unico nutrimento nei giorni in cui anche il pane e la legna per il fuoco gli vennero a mancare. Fu questa sua passione intensa e ostinata, quasi ossessiva, a consentirgli di sopravvivere all’incomprensione della critica e del pubblico, alla miseria, al dolore per la perdita di Camille e di Alice, dei figli e degli amici più cari. Ogni sua giornata e la sua intera vita furono imperniate sulla necessità di una relazione sempre più profonda e totale tra sé e l’essenza della natura e la sua pittura:

“Alzato fin dalle quattro del mattino, sgobbo tutta la giornata, e venuta la sera sono talmente sfinito dalla stanchezza che ho dimenticato tutti i miei doveri, non badando che al lavoro che ho intrapreso. (…) Grazie al lavoro, grande consolazione, tutto va bene”. 
(C. Monet, lettera al mercante d’arte Paul Durand-Ruel. Giverny, 29 giugno 1914).

Eppure Monet sembrò non accontentarsi della natura che gli si offriva agli occhi:

“Si può passeggiare indefinitamente sotto le palme, gli aranci, i limoni e anche sotto gli splendidi ulivi, ma quando si cercano soggetti è molto difficile. Vorrei fare certi aranci e limoni che si stagliano contro il mare azzurro, ma non riesco a trovarli come voglio
(C. Monet, lettera ad Alice Hoschedé. Bordighera, 26 gennaio 1884).

La ricerca affannosa di quella sua “visione” lo portò, come abbiamo visto, a spostarsi senza sosta da un luogo all’altro, frugando tra i riflessi delle fronde nell’acqua increspata, tra i cespugli e i fiori di ogni campo, nell’aria e nella luce di ogni ora del giorno e della sera. Ciò che Monet bramava trasformare in pittura sembrava in qualche modo collocarsi al di là delle combinazioni di luci e colori in cui lo sguardo riusciva quotidianamente a imbattersi. La sua pittura, per essere veramente tale, esigeva quale motivo una natura su misura che le permettesse di esplodere in tutta la sua originale e luminosa autenticità.

Nei luoghi ove più a lungo fermò la sua dimora prima di stabilirsi a Giverny, Monet volle creare un piccolo giardino fiorito. Così, intorno alla sua casa di Argenteuil e a quella di Vétheuil, senza ancora essere pienamente conscio di quanto ciò potesse significare, egli abbozzò le prime variopinte immagini della sua natuta ideale. 


Claude Monet, Il giardino di Vétheuil, 1880.




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