martedì 25 novembre 2014

Impressione e Fiori a Giverny. Parte VI


Parte VI: L’ultima opera di Monet


Un’opera lenta, perseguita con amore. Diversi e contrastanti sono i pareri su quale sia stato il vero scopo dell’appassionata creazione del giardino di Giverny; Monet stesso, che nella lettera del 17 luglio 1893 indirizzata al Prefetto dell’Eure scriveva del laghetto delle ninfee sostenendo si trattasse “unicamente di una cosa di ornamento e per il piacere degli occhi ed anche per la creazione di motivi da dipingere”, sembrò in seguito non dare importanza a tale iniziale motivazione, tanto che discorrendo con M. Elder nel 1924 a proposito delle stesse ninfee, così si esprimeva: “Ci ho messo del tempo per comprendere le mie ninfee. Le avevo piantate per diletto; le coltivavo senza immaginare di dipingerle… Un paesaggio non vi si imprime in un giorno… E poi, tutto d’un tratto, ho avuto la rivelazione degli incanti del mio stagno…”. 
Certo è che fin dal 1890, ancor prima della creazione dello stagno artificiale, Monet cominciò a dipingere svariati angoli del giardino, soprattutto quando il maltempo gli impediva di ritrarre pioppi e covoni di fieno nella campagna circostante; e certo è che la progressiva sistemazione della tenuta corrispose all’incremento delle tele ispirate al giardino stesso, fino a culminare nella grandiosa serie delle “Nymphéas”. 

Lento frutto di un innato e intenso amore per la natura, il piccolo parco di Giverny non tardò comunque a trasformarsi in qualcosa di più che un semplice giardino privato; in esso si materializzò come per incanto, giorno dopo giorno, l’antica e tanto anelata “visione” di Monet: l’immagine ideale di una natura per l’arte. Natura per la sua arte, creata appositamente per essa, unico motivo racchiudente in se stesso tutti i fattori necessari al totale, estremo manifestarsi delle immense potenzialità pittoriche dell’Impressionismo di Monet. 

L’acqua e i fiori; infinite rifrazioni di luce e infiniti riflessi di ombra colorata, mobili come l’aria: tutto questo era finalmente raccolto in un unico luogo, familiare e raggiungibile ad ogni istante, sempre pronto ad essere catturato con quell’ossessione tipica degli ultimi anni dell’attività di Monet Ossessione che sembra ora rivelarci come quel fatale istante dell’impressione non fosse più, per il Maestro, qualcosa di estremamente fuggevole, casuale, superficiale, bensì frutto di profonda riflessione: ciascun effetto di natura, a Giverny, è pensato e calibrato in ogni sua fase, così che la percezione visiva dello stesso risulti guidata, prevista, o meglio voluta e approntata dall’artista al fine della sua ottimale restituzione pittorica. 




Il laghetto delle Ninfee


Non solo natura, non solo motivo: l’ultimo giardino di Monet è esso stesso opera d’arte; è una pittura a tre dimensioni, la tela più spettacolare dell’Impressionismo. 

Fin dai tempi del grande “Déjeuner sur l’herbe”, Monet volle “gettarsi corpo e anima nel plein air”, sperimentando il palpitante fluire della vita naturale attraverso la totalità dei propri sensi. Dipinse sotto la pioggia, immerso nella nebbia, nel vento, sul mare… perché la pioggia lo sfiorasse, perché potesse respirare la nebbia e il profumo del vento e udire il fragore delle onde infrante sugli scogli. Vedere e ricordare non sarebbe stato sufficiente allo scaturire della sua pittura: era indispensabile un contatto privo di mediazioni, così che la natura parlasse direttamente allo spirito proprio attraverso le immediate sensazioni del corpo, nel più totale abbandono. 

Era necessario immedesimarsi nell’essenza della propria arte e Monet lo fece fino al punto di trasformare l’arte stessa in realtà tangibile. Il giardino di Giverny è un’opera fisica, vivente, assoluta: è l’immersione completa dell’artista e dello spettatore nella luce e nei colori della natura ri-creata dall’inconfondibile occhio impressionista. È il plein air portato al suo limite stremo, in sintonia con la contemporanea creazione delle “Nymphéas”, le quali riflettono in modo mirabile tale intenso coinvolgimento dei sensi in tutto lo svolgersi naturale. 


Stagno di Ninfee (1915-26)

Ninfee (1920-26)


Monet, o chiunque si avventurasse tra le aiuole sgargianti o tra le frasche ombrose, diveniva parte inscindibile e attiva di quella pittura vivente, macchia di colore esso stesso, mobile fruscìo attraverso l’aria densa di fragranze e di luci, tutt’uno con il molteplice e impressionistico disporsi degli elementi naturale; numerosissime fotografie testimoniano la costante attenzione al far sì che la presenza umana fosse indispensabile alla completa realizzazione dell’opera-natura e svelano le infinite possibilità compositive scaturite dal semplice e sempre nuovo mutare di tale presenza. In tal modo, ogni percorso si rivela funzionale pur nella caratteristica libertà formale dell’Impressionismo. 

Il giardino di Monet è un’opera dinamica, nel ciclico svolgimento dei fenomeni naturali; ciclicità naturale, ma preordinata nella scelta iniziale, da parte dell’artista, delle sue manifestazioni percepibili. 

Abbiamo visto come l’idea del giardino inteso come opera d’arte non fosse affatto insolita, appartenendo anzi ad una lunga ed ormai consolidata tradizione culturale. Ma se l’arte dei giardini, così come ci si presenta attraverso la sua ampia teorizzazione, implicava la pre-concezione del giardino come vero e proprio prodotto estetico e si sviluppava attraverso precise fasi di progettazione e composizione formale, per Monet non fu così, o non esattamente: egli non concepì a priori il suo giardino come opera d’arte in sé compiuta, ma, alterando in modo rivoluzionario il rapporto esistente tra l’arte e il paesaggio, operò una trasposizione della pittura nella realtà naturale, giungendo a farne coincidere le essenze. 

Queste riflessioni ci permettono di valutare in modo nuovo il giardino di Giverny, considerandolo quale vero e proprio suggello ideologico e formale dell’opera di Monet, in piena coerenza con la poetica impressionista; il celebre Jardin des Nymphéas non è che l’ultimo grande capolavoro di un uomo che visse interamente per la sua arte, perseguendone con ammirevole costanza l’estremo e imprevedibile compimento.


Ninfee (1920)


Testo di M.Elena Gonano, tratto dalla tesi di laurea in Belle Arti, Brera 1990. ©

Bibliografia:

- F. Arcangeli, Monet, Nuova Alfa ed. 1989
- P. del Giudice, Gli Impressionisti, A. Mondadori 1961
- M. Elder, A Giverny chez Claude Monet, Bernheim 1924
- M. Hoog, Les Nymphéas de Claude Monet au Musée de l'Orangerie, Ed. Réunion Musées Nationaux, 1984
- Jean-Pierre Hoschedé, Claude Monet, ce mal connu. Intimité familiale d'un demi-siècle à Giverny, P.Cailler 1960
- Joyes-Forge, Monet at Giverny, Londra 1975
- S. Z. Levine, Monet and his critics, Tesi di laurea, Harvard 1976
- Rossi-Bortolatto, L'opera completa di Claude Monet, Classici dell'arte n.63, 1972
- W.C. Seitz, Claude Monet: seasons and moments, Catalogo mostra N.Y. 1960
- Y. Taillandier, Monet, Maestri del Colore n.30, 1964
- L. venturi, Les archives de l'Impressionnisme. Lettres de renoir, Monet, Pissarro, Sisley et autres. Durand-Ruel 1939
- D. Wildenstein, Claude Monet, Bibliographie et catalogue raisonné, La Bibliotheque des Arts 1979
D. Wildenstein, Monet's years at Giverny: beyond Impressionism, Catalogo Metropolitan Museum 1978
- K. Clark, Il paesaggio nell'arte, Garzanti 1985
- E. André, L'art des jardins, Masson 1879
- C. Blanc, Grammaire des art du dessin. Jardin. Gazette des Beaux Arts, 1864
- F. Fariello, Architettura dei giardini, Ed. Ateneo 1967
- A. Hauser, Storia Sociale dell'arte, Einaudi 1955






martedì 18 novembre 2014

Impressione e Fiori a Giverny. Parte V

Parte V: il Giardino



Monet dipinse la terra del suo giardino con i colori più luminosi di cui disponeva, affinché l’Impressionismo si facesse realtà sperimentabile attraverso al totalità dei sensi e affinché le tele ispirate a tale minuscolo neo-creato portassero in loro stesse la pienezza sgargiante della poetica impressionista. 

Quale artista profondamente radicato in quella rivoluzionaria modalità di visione della natura che caratterizzava le opere dei pittori del Café Guerbois, Monet cominciò con l’abolire ogni traccia di disegno dalla sua tela naturale: come non utilizzò per i suoi dipinti il tradizionale disegno preparatorio a matita entro il quale stendere successivamente il colore, così non si currò dello schema compositivo preesistente del giardino, modificando forma, numero e disposizione delle aiuole e delle bordure non già in funzione della struttura formale, bensì in funzione del colore. In breve tempo i caratteri geometrici che pure permanevano nella struttura delle superfici coltivate nell’area originaria della proprietà, sembrarono sparire celati dall’intrico confuso delle piante verdi e dei fiori. Nella parte nuova al di là della ferrovia, il colore vegetale fu “steso” direttamente sulla superficie vergine in un freschissimo ed imprevedibile susseguirsi di macchie e tocchi di luce colorata. 

Nella risultante informalità compositiva, nulla era in realtà lasciato al caso: ogni particolare aveva un suo preciso ruolo e contribuiva all’esaltazione dei frammenti adiacenti. 

La regola vitale che sottostava alle combinazioni cromatiche delle varie parti del giardino era quella più puramente impressionista: masse di colore giustapposte secondo le leggi della complementarietà, elevavano a incredibile potenza le caratteristiche suggestive proprie di ciascuna tinta. 

Monet non amava le specie di fiori variegati così come non amava nei suoi dipinti le tenui sfumature e il chiaroscuro tradizionali: pochi colori, i più puri, distribuiti in campiture monocromatiche sapientemente accostate l’una all’altra, bastavano a creare il più solare degli effetti. Chiazze giallo-oro e arancio in campiture viola e blu, fiamme di rosso nel verde brillante dell’erba, vibravano e si riconvertivano il luce imprimendosi sulla retina dell’osservatore; macchie di rosa, malva, azzurro, porpora e bianco contribuivano a questo incessante riverbero. 

Nel corso dell’anno, allo scorrere delle stagioni, le aiuole mutavano più volte colore e contorno, secondo la volontà creativa dell’artista unita ad una sempre varia e imprevedibile dose di spontaneità, derivata dalla vita propria degli elementi naturali. Dalla prima, timida luminosità dei bucaneve e delle primule nelle ancora spoglie giornate tardo-invernali, alla fresca gaiezza primaverile delle aubrezie, delle viole, delle giunchiglie, all’esplosiva intensità delle dalie, degli anemoni, delle ortensie e delle rose nei giorni estivi carichi di aromi, fino al tardo trattenersi autunnale degli astri e delle bocche di leone, ogni angolo di terra della vecchia proprietà alternava deflagrazioni di colore a folti e selvatici tappeti erbosi. 

In primavera il tenero manto verde chiaro si arricchiva di arancio, azzurro, malva e viola, con una netta prevalenza di smaglianti accostamenti fra i complementari azzurro-arancio; in estate la tavolozza naturale di Monet tendeva a rafforzarsi in colori più violenti, intensi, in gradazioni dal viola al rosso vivo, con macchie vermiglie che stridevano sullo sfondo verde intenso; poi tutto si placava nei biondi e caldi colori autunnali punteggiati di rosa e giallo aranciato. 

Attraversando la ferrovia, si penetrava in un immenso rigoglio di verde, illuminato dai riflessi dell’acqua e dei fiori; un ponticello arcuato, di gusto tipicamente giapponese, univa in una cascata di glicine le rive opposte del laghetto cosparse di iris, felci e canne, prima del ricongiungersi, a ovest, delle acque del ruscello con quelle del Ru. E lì, sullo specchio tranquillo dello stagno, fiorivano nobili e misteriose, irraggiungibili, le ninfee galleggianti sulle loro culle di foglie, circondate da una miriade di luccichii colorati. 
Aria, acqua e terra in un tutt’uno di luci e di ombre variopinte, tra le fronde argentate dei salici e i fruscii dorati delle canne di bambù. 

Le seguenti ricostruzioni delle campiture cromatiche sono state ricostruite sulla base dei dati esposti in precedenza e dei documenti fotografici disponibili: per il loro carattere schematico, tali ricostruzioni non vanno lette come riproduzioni realistiche, ma quali ausilio alla definizione delle più frequenti combinazioni cromatiche utilizzate da Monet nella sua composizione vivente. La colorazione e le dimensioni delle colture risultano pertanto volutamente accentuate in rapporto alla visione reale.

Per questioni di spazio e leggibilità sul web e per il carattere del tutto informale di questa pubblicazione, riporto qui solo le immagini ricostruite dell’aspetto cromatico delle coltivazioni stagionali nel giardino originale e in quello delle ninfee, tralasciando l’elenco completo delle singole specie vegetali, della loro distribuzione nell’area coltivata e delle loro mutazioni cromatiche stagionali. Chi fosse interessato a consultare tali pagine, può chiedermelo contattandomi via e-mail.












domenica 9 novembre 2014

Impressione e Fiori a Giverny. Parte IV


Parte IV: Monet a Giverny

“Il mio giardino è un’opera lenta, perseguita con amore…”

Monet fece le sue prime esplorazioni di Giverny intorno al 1881 e ne fu subito piacevolmente colpito. A circa sessanta chilometri a nord-ovest di Parigi, la Senna confluisce ad est con il fiume Epte, in una verde valle che si estende verso mezzogiorno nelle pianure di Essarts e dell’Ajoux. Il villaggio di Giverny, che ai tempi di Monet contava circa trecento abitanti, poggia ai piedi di colline ondulate, circondato da campi e prati solcati da rigagnoli e filari di pioppi e salici. Gli specchi d’acqua dai riflessi cangianti, le foschie mattutine e le mobili fronde mosse dalla brezza, creano infiniti riverberi di luce colorata, mutevole ad ogni ora del giorno e diversa in ogni stagione. 




Monet ne fu affascinato e volle fare di quella soffusa e luccicante atmosfera la sua principale dimora; nell’aprile del 1883 affittò la casa e, a più riprese, ne avviò la lenta sistemazione, pur non abitandovi ancora stabilmente. 

La casa principale, le cui pareti erano ricoperte esternamente da un intonaco di colore rosa antico, includeva quattro locali al piano terreno e quattro al primo piano, completati da una soffitta e da una cantina. A destra, guardando frontalmente la costruzione dalla strada del villaggio che la fiancheggia (ora denominata “Rue Claude Monet”), trovava posto inizialmente un granaio che l’artista trasformò in studio, Sul retro, la casa si affacciava su un giardino di forma rettangolare, leggermente in pendenza; oltre il muro di cinta correva una strada (il “Chemin du Roy”) parallela ad un binario della ferrovia, al di là del quale il terreno ammantato di erba lussureggiante era solcato dal letto del Ru, una breve diramazione dell’Epte. 

Il 19 novembre 1890, ormai assestate le proprie condizioni finanziarie (fino ad allora assai precarie a causa della forte incomprensione da parte della critica e del pubblico), Monet poté finalmente acquistare la casa e il giardino retrostante; nel 1893 ampliò la proprietà (la cui superficie superava già i 9.000 mq) aggiungendovi dapprima la striscia di terreno compresa tra la strada ferrata e il Ru, ed in seguito un’ulteriore area situata oltre il torrente. Qui Monet volle creare uno stagno artificiale, incanalando l’acqua del Ru all’inizio della proprietà e restituendola al torrente all’estremità opposta mediante un sistema di chiuse (non senza difficoltà da parte della prefettura e degli abitanti di Giverny che non vedevano di buon occhio le stravaganze dell’artista e temevano un avvelenamento delle acque); la vasca venne poi ampliata e ulteriormente modificata fra il 1903 e il 1910 affinché apparisse meno regolare nella forma. 

Una immensa tela naturale era finalmente pronta ad accogliere i colori più intensi dell’Impressionismo.

Al giungere di Monet a Giverny, nel 1883, il giardino preesistente appariva assai lontano dall’idea compositiva che andava a poco a poco formandosi nella mente dell’artista.

Dalla casa principale al Chemin du Roy scendeva rettilineo il vialetto centrale, definito ancora più rigidamente dai due filari di cipressi e abeti rossi che lo costeggiavano; due lunghe aiuole fiorite ne accompagnavano la discesa, ordinate e simmetriche. Siepine di bosso tosate con asettica accuratezza, geometrie misurate e simmetria compositiva, colture selezionate senza alcun estro all’interno degli schemi stereotipati della tradizione, rivelavano l’identità del giardino acquistato da Monet, rientrante nella consueta tendenza dell’epoca a riprodurre, nell’àmbito ridotto della proprietà privata, gli stilemi dell’arte maggiore del giardinaggio francese, con esiti spesso sterili e vacuamente retorici.

Dopo l’arrivo di Monet, ben poco rimase di quanto era originariamente racchiuso entro la cinta della proprietà: coerentemente con la radicale opposizione condotta da parte dei giovani pittori del Café Guerbois nei confronti della pittura accademica ufficiale del Salon, circa quindici anni prima, Monet volle inondare di freschezza impressionista anche la natura del suo nuovo giardino, rimuovendo drasticamente tutto ciò che ancora le conferiva una sembianza formale. Conservando unicamente i tigli che profumavano l’angolo tra l’abitazione e il luogo ove in seguito sarebbe sorto il secondo atelier (a ovest della casa stessa, adiacente al muro di cinta) e i due rigogliosi tassi che facevano capo al vialetto centrale, vennero eliminati i due filari di abeti rossi e cipressi; così avvenne anche per le siepi di bosso e per molti degli alberi da frutto preesistenti, sostituiti da cotogni giapponesi e ciliegi. Presso il Giardino Botanico di Rouen, Monet si procurò bulbi e sementi per rimpiazzare le coltivazioni rimosse.

Con lavoro costante e premuroso, Monet diede forma giorno per giorno a quel progetto che nella sua mente andava definendosi in modo sempre più chiaro e insistente. Il pensiero del giardino lo lasciava raramente, anche quando si recava per periodi più o meno lunghi a dipingere presso altre località: in molte delle sue lettere alla moglie Alice compaiono nuove proposte e suggerimenti riguardanti le modifiche da apportare a questo o quel tratto del giardino. Questa sua passione non mancò di coinvolgere attivamente la stessa famiglia, fino a quando, nel 1891, per tenere testa all’immane lavoro di manutenzione, non fu necessario assumere addirittura cinque giardinieri, sotto la guida del fidato capo-giardiniere Breuil. 





“Quarant’anni fa, quando sono venuto a stabilirmi qui, non c’erano che una casa di campagna e un povero orticello… Ho acquistato la casa e a poco a poco l’ho ingrandita, organizzata. Il mio salone era il granaio… Ci siamo tutti dedicati al giardino: io stesso zappavo, piantavo, sarchiavo; la sera i bambini innaffiavano…”. Così l’artista nel 1924 ricordava quei primi anni a Giverny.

Nello svolgersi della vita quotidiana di Monet, dei suoi famigliari e dei suoi ospiti, il giardino assunse presto una parte predominante: i suoi ritmi segnavano quelli dell’attività artistica del maestro, che si installava con la sua attrezzatura negli angoli e negli istanti più suggestivi; la visita del giardino era tappa obbligata e gradita a ciascun ospite, dopo un pranzo consumato all’ombra dei tigli o sul terrazzo per non perdere nemmeno un attimo del meraviglioso e continuo mutare dello spettacolo naturale.